Il Sacrario Militare inquieta: nella sua opulenza, nella sua possenza. Macabro e spettacolare, è la sintesi di due visioni della guerra: quella sacralizzata, la narrazione stilizzata dalla retorica fascista che rende “martire” indistintamente ogni caduto.
“Redipuglia viene citato da tutti gli storici” spiega lo storico Franco Cecotti. 100.000 morti: le alme che ospita il Sacrario Militare di Redipuglia – italianizzazione del enome sloveno “Sredi Polje” (“Valle lunga”) – inaugurato da Mussolini il 18 settembre 1938, giorno della proclamazione delle leggi razziali a Trieste. Su 52 ettari, 22 gradoni si inerpicano sul versante occidentale del Monte Sei Busi; quasi infinita la successione di nomi, date di nascita, gradi militari dei 40.000 soldati identificati qui sepolti, impressa su lastre di bronzo. Su ogni gradone si staglia ripetuta quasi ossessivamente la parola “presente”, riferimento al rituale fascista dell’appello. In cima alla scalinata due fosse comuni, ognuna contenente 30.000 soldati non identificati. Nello spiazzo, ai piedi della scalinata, numerose lastre di bronzo recano i nomi delle più importanti battaglie della Terza Armata; poco più in là, alcuni sarcofagi. Il più grande contiene la salma di Emanuele Filiberto Duca d’Aosta, comandante della Terza Armata, “Invitta”: protagonista di numerose battaglie sull’Isonzo e dell’impresa di Vittorio Veneto. Egli stesso espresse la volontà di essere sepolto assieme ai suoi soldati. Nei più piccoli giacciono le spoglie dei generali della Terza Armata. A pochi metri dalla tomba del Duca d’Aosta, sulla prima fila di gradoni, si trovano i resti dell’unica donna inumata a Redipuglia: Margherita Kaiser Parodi, la “Crocerossina di Redipuglia”. Partecipò durante la Prima Guerra Mondiale al corpo delle infermiere della Croce Rossa Italiana, venendo decorata con la Medaglia di Bronzo al Valor Militare il 19 maggio 1917; dopo la fine della guerra continuò il servizio di assistenza a feriti e malati a Trieste. Il Sacrario Militare inquieta: nella sua opulenza, nella sua possenza. Macabro e spettacolare, è la sintesi di due visioni della guerra: quella sacralizzata, la narrazione stilizzata dalla retorica fascista che rende “martire” indistintamente ogni caduto. E quella realista, che vede nelle migliaia di nomi impressi nel bronzo l’effetto reale dei conflitti umani: la produzione industriale di vittime. L’esercito del Duca d’Aosta rimane “presente” a Redipuglia: il fascismo lo sbandierò come vessillo del nazionalismo; l’esercito di Margherita Kaiser Parodi è quello delle vittime, naufraghi nel turbinio della guerra. I due, così vicini nello spazio, sono lontanissimi: il primo condusse quelle migliaia di soldati a Redipuglia; la seconda tentò di salvarli. A cura di Rachele Ramacciotti, Alessandro Gori, Gaia Moscardini, Filippo Cataldi, Stefano Anguillesi |
Se 100mila cadaveri vi sembrano pochi… A Redipuglia la celebrazione dello ‘spirito patrio’ e del ‘sacrificio’ ad uso e consumo di vecchi e nuovi nazionalismi. Ma pietas umana parla anche da qui.
🎥 Il significato della parola "presente" Il Sacrario di Redipuglia è il più grande e maestoso sacrario italiano dedicato ai caduti della Grande Guerra. Realizzato sulle pendici del Monte Sei Busi su progetto dell’architetto Giovanni Greppi e dello scultore Giannino Castiglioni, fu inaugurato il 18 settembre 1938 dopo dieci anni di lavori. Quest’opera, detta anche Sacrario “dei Centomila”, custodisce i resti di 100.187 soldati caduti nelle zone circostanti, in parte già sepolti inizialmente sull’antistante Colle di Sant’Elia.
Fortemente voluto dal regime fascista, il sacrario voleva celebrare il sacrificio dei caduti nonché dare una degna sepoltura a coloro che non avevano trovato spazio nel cimitero degli Invitti. La struttura è composta da tre livelli e rappresenta simbolicamente l’esercito che scende dal cielo, alla guida del proprio comandante, per percorrere la Via Eroica. In cima, tre croci richiamano l’immagine del Monte Golgota e la crocifissione di Cristo. 🔊Intervista allo storico Franco Cecotti sul sacrario di Redipuglia e l’enorme numero di vite perse |
“Vi dirò ciò che è accertato” esordisce la guida Giorgio Liuzzi “se su qualcosa esiste un dubbio a livello storico ve lo farò presente”. Non a caso: la Risiera di San Sabba ha ancora tanti lati oscuri. Non esiste ancora una lista esatta di chi è passato o è morto nel noto campo di concentramento e di sterminio triestino; non si tenevano registri, del resto.Dei circa 2000 morti conosciamo i nomi di poco più di 300, grazie alla Lista Bubnič – redatta privatamente dal signor Bubnič nel Dopoguerra. Persino il processo del 1976 non riuscì a chiarire il coinvolgimento a più livelli di un gran numero di collaborazionisti triestini. Due i nomi colpevoli: Hans Dietrich Allers e Joseph Oberhauser, entrambi legati ad Aktion T4 (Progetto eutanasia per persone affette da malattie genetiche inguaribili e handicap mentali: a detta dei nazisti, “vite indegne di essere vissute”). Dichiararano al Tribunale di Francoforte sul Meno di non essere stati a conoscenza della presenza di un forno crematorio operativo nella Risiera. Il processo italiano del ‘76, guidato dal giudice triestino Sergio Servo, stabilì il contrario: il forno c’era e funzionava. “Di qui si usciva o per il treno o per il fumo” – lapidario.
Nelle 17 cellette lo spazio non supera di molto i 3 metri per 3. Dentro, letti accatastati – almeno 3 per cubicolo. Fuori, cemento. “I prigionieri facevano la fila per mettere la testa fuori dal foro della porta e prendere una boccata d’aria” spiega Liuzzi. Delle prime due celle della serie non si conosce con certezza la funzione: erano probabilmente destinate alla tortura. L’ex-magazzino, la “Sala delle Croci” era il locale destinato a stipare al piano inferiore gli effetti personali dei prigionieri, e al superiore i prigionieri stessi diretti alla deportazione. I treni da Trieste ai campi di concentramento erano numerosissimi. Oggi, i tre piani della “Sala delle Croci” sono visibili solo grazie all’ossatura delle travi, unico elemento strutturale rimasto in piedi – al contrario, non esistono più i solai. Incastonati in un muro, alcuni degli oggetti dei prigionieri recuperati. Occhiali, pettini. Frammenti d’umanità. Romano Boico, architetto italiano, si occupò degli interventi per la musealizzazione del complesso. Nel cortile, dove si è stabilito fosse il forno, un fumoso aggregarsi di lastre di metallo si innalza. Fumo e binari. Una muraglia di cemento grezzo cinge ciò che i tedeschi non distrussero della Risiera. Tra i muri vecchi e i nuovi non c’è contatto: il presente non contamini il passato. Soffocano la luce, l’aria, la vista. Soffocano il pensiero. A cura di Alessandro Gori |
La risiera di San Sabba è stato un lager nazi-fascista, situato nella città di Trieste, utilizzato come campo di detenzione di polizia (Polizeihaftlager), nonché per il transito o l’uccisione di un gran numero di detenuti, in prevalenza prigionieri politici o ebrei. Oltre ai prigionieri destinati ad essere uccisi o deportati, vi furono imprigionati anche diversi civili catturati nei rastrellamenti o destinati al lavoro forzato. Le vittime (stimate fra le 3000 e le 5000, sulla scorta delle testimonianze raccolte) venivano fucilate, uccise con un colpo di mazza alla nuca, impiccate oppure avvelenate con i gas di scarico di furgoni appositamente attrezzati. Del lager faceva parte un forno crematorio, di concezione rudimentale, che veniva utilizzato per bruciare i cadaveri. Oggi la risiera è divenuta un museo. Nel 1965 è stata dichiarata monumento nazionale
🎥 Giorgio Liuzzi sul forno crematorio della Risiera di San Sabba Quando è veramente caduto il muro di omertà sui crimini di guerra in Italia? Alla Risiera di San Sabba (Trieste), sede di un campo di concentramento e sterminio nazista, possiamo dire: mai. Nonostante un processo istruito e delle condanne comminate.
Il grande complesso di edifici dello stabilimento per la pilatura del riso – costruito nel 1898 nel periferico rione di San Sabba – venne dapprima utilizzato dall’occupatore nazista come campo di prigionia provvisorio per i militari italiani catturati dopo l’8 settembre 1943 (Stalag 339). Verso la fine di ottobre, esso venne strutturato come Polizeihaftlager (Campo di detenzione di polizia), destinato sia allo smistamento dei deportati in Germania e in Polonia e al deposito dei beni razziati, sia alla detenzione ed eliminazione di ostaggi, partigiani, detenuti politici ed ebrei. Nel sottopassaggio, il primo stanzone posto alla sinistra di chi entra era chiamato “cella della morte”. Qui venivano stipati i prigionieri tradotti dalle carceri o catturati in rastrellamenti e destinati ad essere uccisi e cremati nel giro di poche ore. Secondo testimonianze, spesso venivano a trovarsi assieme a cadaveri destinati alla cremazione. A cura di Niccolò De Felice, Niccolò Mariottini, Giuseppe Matteucci 🔊Intervista a Dunja Nanut, Presidente ANED Trieste |
Visitando il Magazzino 18 abbiamo potuto osservare quello che è la memoria dei profughi che hanno vissuto l’esodo. È aperto al pubblico da circa 10 anni, da quando Simone Cristicchi ha deciso per volontà propria di visitare questa memoria. Da allora è divenuto visitabile.Il Magazzino 18 non può essere definito museo, perché un museo è una raccolta specifica organizzata da uno storico. D’altra parte, non può essere definito Memoriale, poiché un memoriale è un monumento ideato da delle istituzioni per far riflettere una comunità pubblica.
Semplicemente, Magazzino 18 espone una raccolta di memorie personali della comunità degli esuli istriani. Alla fine della guerra, con l’assegnazione dell’Istria alla Jugoslavia di Tito, agli abitanti della regione è stata posta una scelta: rinnegare il loro passato o fuggire in Italia. Così, per non abbandonare la loro storia, in molti decisero di portare via dalle loro case i loro averi di uso quotidiano e di andarsene spargendosi per tutta Italia e per tutta Europa. Le persone scappate inizialmente portarono i loro averi di vita quotidiana nel Magazzino 26; successivamente, per la demolizione del magazzino, dovettero trasferire le loro masserizie nel Magazzino 22. A causa di un incendio, venne bruciata una parte dei loro possessi e ciò che si salvò venne portato nel Magazzino 18. Oggi il Magazzino 18 è un luogo dell’anima, e delle anime che vivono attraverso la storia muta ed immobile di quegli oggetti accatastati. Una volta entrati, si prova una emozione, un sentimento, come se il tempo tornasse indietro a quel periodo e si congelasse. E il tempo “congelato” in quel magazzino è quasi opprimente a causa della quantità di oggetti. Quello che siamo andati a vedere, come definito dal suo direttore, è “solo una umile raccolta di masserizie. Ma nello stesso tempo trasmette la tragedia, per ogni esule, dell’abbandono e della separazione. A cura di Flavio Mancini, Giacomo Sbaragli, Samuele Pratesi, Camilla Terrosi, Andrea Andreani, Giulia Pagliazzi, Melissa Pasmaciu, Arbesa Spahiu |
“Il rancore di chi è stato sradicato, per quanto comprensibile, va superato con uno sforzo, anche doloroso ma necessario, perché bisogna superare le tragedie individuali e familiari per ricucire le ferite prodotte dalla storia”“La testimonianza di quello che ci è successo serve a capire che quello che è successo a noi sta succedendo tutt’ora in tanti parti del mondo e allora coerentemente, chi è dalla parte dei profughi istriani, non può che essere dalla parte dei profughi di oggi”
🔊Intervista a Livio Dorigo, esule di Pola Silva Rusich, figlia di esuli istriani e testimone della memoria: “conoscere la storia, approfondire, confrontarsi è l’unico antidoto contro la propaganda”.
🔊 Intervista di Domenico Guarino a Silva Rusich |
Il campo di Gonars fu realizzato nel 1941 in previsione dell’arrivo dei prigionieri di guerra russi, ma dalla primavera del 1942 venne destinato all’internamento dei civili della Provincia italiana di Lubiana, rastrellati dall’esercito italiano in applicazione della Circolare 3C del generale Roatta, comandante della II Armata.
In questa circolare si specificavano le misure repressive da attuare nei territori occupati, come il titolo di internamento protettivo, precauzionale e repressivo da applicare sia ad individui, famiglie che ad intere popolazioni di villaggi e zone rurali. Nel campo di concentramento di Gonars, in un primo periodo si potevano trovare intellettuali, studenti, insegnanti, artigiani, operai e artisti. Arrivò a contenere 7mila persone. I morti furono oltre 500 🔊 Intervista con un testimone della deportazione dei prigionieri a Gonars Giancarlo Ferro è l'ex sindaco di Gonars. Ci ha parlato di come si cerca di presentare la memoria dei deportati Slavi nel campo di concentramento fascista
A cura di Niccolò De Felice, Niccolò Mariottini, Giuseppe Matteucci 🔊 Intervista a Giancarlo Ferro |
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“Il parallelo con la Shoah è offensivo” dice lo storico Franco Cecotti. “Non si possono capire le Foibe se non si conosce la storia del confine nordorientale”.“Ci sono decine e decine di studi sulle foibe, che descrivono esattamente il fenomeno, come e perché accadde, quali sono i numeri. solo che molti giornalisti preferiscono affidarsi al sensazionalismo alimentato dalla politica” dice Cecotti. “Il problema è la violenza della guerra”
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A poche centinaia di metri due monumenti, due storie, due memorie, due sentimenti opposti. Un luogo che ci spiega, come forse nessun altro, quanto la memoria sia sempre "parziale" e come tocchi alla storia e definire fatti e contesti.
In memoria di quanto accaduto nel 1930 a Basovizza è stato eretto un pilastro, monumento in ricordo dei 4 antifascisti sloveni appartenenti al TIGR (Trieste, Istria, Gorizia e Rijeka), morti giustiziati in seguito dell’attentato ad uno dei giornali fascisti di Trieste. Cosa fecero: un gruppo di 9 antifascisti attentò con una bomba uno dei giornali di Trieste. Dei 9 processi solo 4 sentenze vennero emesse. Essi vennero processati e giustiziati nell’allora poligono di tiro. In memoria, dietro al pilastro vennero poste 4 lapidi.Ma queste terre sono state teatro di ulteriori episodi in questo tragico contesto di guerra totale, che porta a una frammentazione di identità.Infatti, dal 1943 al 1945 vennero usate le cavità carsiche (foibe) presenti a Basovizza come luogo di esecuzioni da parte di jugoslavi contro italiani: ad esempio, coloro che indossavano una divisa, percepita come simbolo di una identità nemica (persino i bidelli). Successivamente, con l’arrivo degli Americani, vi fu il tentativo di riesumare i corpi, ma nonostante gli sforzi ne furono riscoperti solo una decina, poiché le ricerche furono fermate, per motivi al tempo non definiti. Al giorno d’oggi, in memoria di ciò abbiamo 2 monumenti: il primo una lapide che riporta i dati di quella foiba e simboleggia in generale questa tragedia; il secondo rappresentante lo sforzo degli Americani di riportare alla luce quanti più corpi possibile. A cura di Flavio Mancini, Giacomo Sbaragli, Samuele Pratesi, Camilla Terrosi, Andrea Andreani, Giulia Pagliazzi, Melissa Pasmaciu, Arbesa Spahiu |